domenica 1 giugno 2025

Memorie di scuola

 

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Terza media
Anno scolastico 1967-1968

 

 



Alla fine dell’estate di quel 1967 mio padre, messi da parte i sogni di gloria siciliani, ci riportò in Sardegna, riunificando così la famiglia.

Il ’68 era alle porte! A fine anno scolastico già si vedevano in giro i primi capelloni e si incominciava a vagheggiare di viaggi psichedelici, attraverso i film e i documentari sui Figli dei Fiori che negli USA già spopolavano; noi maschietti fantasticavamo di minigonne inguinali e camicette trasparenti nakelook che a Londra già mostravano tutto il desiderabile delle donne.

E pensare che poco tempo prima, i giovanotti del mio paese, pagavano 50 lire a Efisiu Cruxoi (in pratica quel personaggio, presente in ogni paese, che con insensibilità e incoscienza si definiva “lo scemo del villaggio”) affinché sollevasse le gonne di qualche pulzella da marito, che con passo impettito, nelle interminabili vasche domenicali (dalla Piazza di Chiesa alla discoteca Moulin Rouge, andata e ritorno) metteva in mostra le pesanti palandrane in cui erano costrette, ben fasciate, le loro bramate grazie. E il massimo della curiosità maschile veniva soddisfatta da certi calendarietti profumati che i barbieri regalavano ai clienti più affezionati; oppure da fumetti e giornali che toccavano l’apice della trasgressione con la rivista “Le Ore”, gelosamente custodita sotto i materassi dei letti dei maschi singoli di allora.

Con la promozione guadagnata con merito e fatica a Spadafora, e col relativo nullaosta, ottenni l’iscrizione alla classe terza della scuola media “E. Puxeddu” del mio paese natio.

Finalmente anche io potevo frequentare una scuola mista! Fino ad allora infatti avevo frequentato sempre scuole soltanto maschili, un po’ a causa della mia frequenza in seminario, un po’ a causa delle vecchie norme che prescrivevano, sulla base delle vecchie convenzioni di una didattica superata, la separazione dei sessi, onde non distrarre i maschi (future colonne portanti della nazione) con le vane chiacchiere e l’ozioso cicaleccio delle future regine degli italici focolari.

Si dà il caso però che a me, lo spensierato ed affascinante riso femminile, piacesse molto di più delle prestazioni muscolose e spavalde dei miei coetanei maschi!

Fui contento inoltre di trovare in classe due ex allievi dei Salesiani di Arborea che, più o meno come me, dopo il primo anno di quella vita fatta di studi e preghiere (e niente sottane, a parte quelle dei preti, naturalmente!), se l’erano squagliata alla grande, ritornandosene al paese.

Anche troppo contento. al punto che, pur di scansare quanto più possibile lo studio, chiedemmo tutti e tre l’esonero dallo studio della lingua latina, per potercene andare a bighellonare per il paese.

Che errore madornale! Più tardi, all’università, alle prese coi decreti di Augusto, con le istituzioni di Gaio e con le formule arcane del processo romano, avrei sudato sui libri di latino riposti troppo presto negli scaffali più alti della libreria, dopo le ricche scorpacciate di declinazioni e sintassi latine fatte in seminario con gli eruditi docenti salesiani, per potere gustare appieno quei brocardi pieni di saggezza antica ed immortale.

E che grande errore ha commesso il nostro legislatore ad espellere il latino dai curricula scolastici della scuola dell’obbligo!

Ma quella, in fondo, era soltanto una parte dell’antifona di quella grande sinfonia rivoluzionaria sessantottina che sarebbe presto esplosa in tutta la sua maestosa potenza!

Quell’anno scolastico lo ricordo come uno dei più disastrosi della mia, tutto sommato, soddisfacente carriera scolastica.

Riuscii perfino a farmi rimandare in matematica e fisica.

Anche se mia mamma mi difese a spada tratta (poiché voleva che almeno io, a differenza dei fratelli più grandi, risucchiati troppo presto nel vortice produttivo dell’azienda familiare, continuassi gli studi sino alla laurea) sostenendo che il professore si era vendicato su di me per il fatto che lei gli aveva negato la vendita di una sveglia a rate di cui lui aveva fatto richiesta a mia madre, una sera, in negozio; e mia madre, senza peraltro conoscerlo, come ho appena detto, si era rifiutata, con grande e palese disappunto del professore, di dargliela.

E mio padre, che stanco delle rate non onorate, aveva fatto stampare ed affiggere nei suoi due negozi dei cartelli che recitavano “Si vende a rate solo ai centenari accompagnati da genitori“, fu costretto, nonostante tutto, ad accettare la mia iscrizione alle scuole superiori della vicina città di Cagliari. E sotto, sotto, sognava che sarei diventato il contabile dell’azienda di famiglia. Per questo acconsentì, a patto che io venissi iscritto alla scuola per ragionieri e contabili.

Ma questo fa già parte di un’altra storia.

Intanto Al Bano cantava “Nel sole”; Little Tony “Cuore matto” e Rocky Roberts “Stasera mi butto”.

E i solitari e i romantici, nei bar per soli uomini, la sera selezionavano a ripetizione nei Juke Box allora in voga, “San Francisco” di Scott Mackenzie; “L’ora dell’amore” dei Procol Harum ma eseguita in italiano dai Camaleonti e “A chi” di Fausto Leali.

Occorre dire che la classe mista in cui mi ritrovai, era per me, un’esperienza alquanto nuova.

Ero stato in classe mista, come l’attento lettore certamente ricorderà, l’anno precedente, anche se solo per un breve trimestre. Ma la classe era comunque una classe per me nuova, anche se vi ritrovai tante facce conosciute.

A causa del mio curriculum scolastico alquanto nomade non potevo dire di avere dei veri e propri amici del cuore; ma le compagne ed i compagni erano in fondo, quasi tutti, nati e cresciuti come me nel paese. Dico quasi tutti perché non mancavano certo dei compagni che si trovavano in quella classe per avventura: figli di carabinieri trasferiti in servizio nella locale caserma da altre parti d’Italia o da altre provincie della stessa Sardegna; figli di funzionari, tecnici o semplici operai del locale zuccherificio, ove si produceva lo zucchero attraverso la lavorazione della barbabietola, coltivata nei vasti campi della pianura del Campidano, al centro del quale è situato il mio paese natio; o magari figli di pastori del Capo di Sopra che, stanchi della vita da transumante, cominciavano ad impiantare le proprie aziende in pianura, dove le loro pecore potevano trovare nutrimento tutto l’anno: nei pascoli aperti, dalla primavera al primo autunno; nei capannoni chiusi, grazie all’erba medica e al fieno ivi accumulati in estate, durante i mesi più freddi e piovosi. Ma in maggioranza, lo ripeto, si trattava di facce conosciute.

Con le ragazze, come si sa, a quell’età c’è un divario esistenziale notevole. Nel senso che le adolescenti a tredici, quattordici anni, sono già donne, con i loro segreti, il loro fascino misterioso che esse riescono ad accrescere un po’ per malizia o magari per timidezza, con quel senso di superiorità nei confronti dei loro coetanei maschi, ancora alle prese con le dinamiche ormonali, in fase di frastorno e trasformazione. E loro, già donne compiute, per istinto posavano gli occhi sui ragazzi più grandi; o forse era il corteggiamento di cui questi erano già capaci, a differenza di noi bambini, che le facevano sentire importanti e distanti da noi.

Tra i ragazzi ritrovai due fuoriusciti dei Salesiani di Arborea che, come me, seppure per motivi diversi, erano andati via dopo appena un anno di Seminario. Uno si chiamava Giorgio (soprannominato ”Villaggio”, che in realtà era il soprannome di uno dei suoi numerosi fratelli più grandi;i genitori avevano una bottega di generi alimentari con annesso panificio e portavano le bombole a domicilio; nei pomeriggi assolati d’estate, come ho già detto, scappavamo spesso al fiume a bordo del triciclo di famiglia, quando ovviamente non serviva più né alla consegna del pane, né al trasporto di bombole); l’altro si chiamava Paoletto, ma il suo soprannome era Tomeno; si era guadagnato un tale nomignolo in Seminario quando, in occasione della correzione dei compiti scritti di Francese lui, che prendeva di frequente un otto non pieno, diciamo un otto meno, a chi gli chiedeva quanto avesse preso ( gli studenti fanno ancora questi confronti, in occasione della correzione di compiti in classe), forse per timidezza, o per un vezzo nel mangiarsi le sillabe iniziali del voto, fu colto a rispondere “tomeno”; e quel soprannome se lo riportò indietro al paese.

Giorgio e Paolo divennero presto un punto di riferimento per me; e nel bene o nel male, ci influenzammo a vicenda in quell’anno così cruciale, dove non eravamo nè carne, nè pesce; ed io, in particolare, mi sentivo sbandato ed irrequieto come non mai. Giorgio aveva sempre appresso delle riviste che in quel periodo andavano forte: Ciao amici e Giovani. Queste riviste parlavano dei gruppi beat e della musica allora in voga: Quelli, I Ribelli, Ricky Maiocchi,I Sorrows, I Trappers, I Balordi, I Bisonti, I Girasoli, Igor Mann & I Gormanni, Ricky Shayne, I Califfi, I Corvi, Ricky Gianco, I Delfini, Evy, I Jaguars, I Meteors, i New Dada e tanti altri che ora non ricordo. Questi gruppi cantavano la rivoluzione, la libertà e la voglia di cambiare il mondo. Reinterpretavano anche molti brani del rock anglo-sassone (oggi si chiamano covers): Bang-Bang, Lady Jane, The house of the rising sun.

Giorgio li conosceva proprio tutti e questo fece crescere a dismisura la mia ammirazione nei suoi confronti. Grazie a quelle riviste, lui conosceva tutti i segreti di questi affascinanti gruppi musicali, che vivevano, a sentir le parole delle loro canzoni, in un mondo pieno di suoni, di colori, di bionde avvenenti e sorridenti che noi potevamo soltanto sognare di notte, dopo averle viste, alquanto discinte , nei calendarietti che i nostri fratelli più grandi ricevevano in omaggio dai barbieri, ove settimanalmente si recavano a cotonarsi e sistemarsi i capelli sempre più lunghi e disordinati, per affrontare con più baldanza e sicurezza le serate nelle sale da ballo, dove ancora si esibivano dal vivo i complessini locali che scimmiottavano, con maggiore o minore bravura, i grandi gruppi internazionali Rock di allora: Santana, Deep Purple, Pink Floyd, Led Zeppelin.

In quelle riviste, sbirciate di nascosto durante le ore di lezione (il professore di religione, un uomo di forte carattere e grande cultura un giorno minacciò di cacciarmi via dall’aula; e aggiunse, lo ricordo ancora, che sarei stato il primo suo studente a subire una tale sanzione), lessi per la prima volta l’aggettivo “psichedelico” che si accompagnava sempre a delle immagini colorate, foto di giovani vestiti alla moda del momento, collo sguardo perso nel vuoto, donne affascinanti, disinibite e sensuali, così diverse dalle nostre donne, ancora coperte di pudore e discrezione, fossero anche giovani studentesse, ancora sotto il dominio del maschio geloso e possessivo.

A tal proposito mi ritorna in mente un episodio che avvenne in paese. C’era uno del mio paese, di qualche anno più grande di noi, un certo Toschi (così chiamato perché giocava al pallone ed aveva come idolo e modello proprio il centravanti della Sampdoria che allora portava quel cognome); questo Toschi si era innamorato, contraccambiato, di una certa Laura, una bella ragazza minorenne di diciotto, forse diciannove anni (all’epoca la maggiore età si raggiungeva ai ventuno anni); il padre di Laura, un funzionario di alto livello dello Zuccherificio dell’Eridania (i funzionari e i tecnici di alto livello avevano diritto a uno degli appartamenti che l’Eridania aveva fatto costruire a ridosso dello stabilimento industriale, a poca distanza dal centro abitato), che per la figlia sognava un partito più vicino al suo e, comunque, molto distante dal prototipo di un giovane calciatore, che solitamente, per rincorrere il pallone mollava qualsiasi impegno, di studio o di lavoro che esso fosse, finendo con buona approssimazione, se non aveva una famiglia facoltosa alle spalle, a fare il commesso in qualche negozio o peggio, nell’ottica del padre di Laura, a campare di lavori manuali, magari a giornata, nell’agricoltura o nell’ edilizia.

Così un giorno, che i due innamorati si erano incontrati in qualche parte del paese, il padre della avvenente Laura piombò sulla coppia e se la riportò a viva forza a casa, gridando ai quattro venti, proprio mentre trascinava la figlia in lacrime, nella piazza centrale, che al compimento della maggiore età, se ancora fosse stata innamorata di quello scavezzacollo senza arte né parte, le avrebbe regalato una corda con la quale si sarebbero potuti impiccare entrambi.

A ottobre iniziai la mia terza media. Oltre a dottor Floris, l'insegnante di religione che ho citato nell'episodio precedente, c'era un certo prof. Decio, insegnante di disegno, un dandy elegante sicuramente bravo nella sua disciplina.

Io ero negato in disegno ma lui mostrò dì apprezzare l'uso che io facevo dei colori. Una professoressa che apprezzavamo in particolare noi ragazzi era una giovane insegnante, forse di Scienze Naturali o di Geografia (ora non ricordo). Quel che ricordo di sicuro era che a noi faceva impazzire quel modo speciale che aveva lei, di accavallare quelle sue gambe fasciate di nylon, dove si intravvedevano delle giarrettiere e dove il nostro occhio cercava di scrutare l'inscrutabile. I più sfacciati di noi buttavano per terra delle penne o dei quaderni, per avere l'opportunità di chinarsi sin sotto la cattedra, a scrutare meglio quel paradiso di sogni proibiti.

Poi ricordo la prof di italiano; era la vedova di un professorone, un certo Mossa, grande studioso di cultura sarda e non solo. Era una tipa magra, piccola e nervosa che fumava una sigaretta dietro l'altra (mi pare di ricordare fumasse le Muratti Ambassador, ma sulla marca non ci giurerei).

Era in gamba e mi fece amare l'epica dei classici Greci, ed in particolare L'Iliade e l'Odissea, che insegnava con passione.

Ricordo ancora l'insegnante di matematica, un certo Gennaro di Villacidro di cui preferisco non fare il cognome.

Non mi sopportava, e come il lettore avrà già intuito, io non ero uno studente che si sforzasse di farsi sopportare. Tutt'altro.

Ai colloqui mia madre scoprì che questo insegnante era un mancato cliente del negozio che aveva preso a gestire per aiutare mio padre.

Il mio buon vecchio regolarmente stazionava nella succursale che aveva aperto in un paese limitrofo, più popoloso e redditizio del nostro paese di residenza.

Raccontò mia madre che questo professor Gennaro, si era presentato in negozio per comprare una sveglia a rate (ma mia madre non sospettava certo fosse un mio professore; altrimenti, confessò candidamente, non gli avrebbe certo negato quanto chiedeva).

A quel tempo si usava ancora tale tipo di vendita ma mio padre l'aveva bandita perché si era stancato di perdere soldi e clienti.

Mio padre raccontava infatti che quando gestiva il precedente esercizio commerciale nel distretto minerario di provenienza della famiglia di mia madre, aveva accumulato due valigioni stracolmi di cambiali, firmate da clienti che erano dovuti emigrare in Belgio, in Francia e in Germania, quando le miniere sarde erano entrate in crisi.

Nelle curve che da Guspini lo portavano verso Gonnosfanadiga (e poi a Villacidro e infine al paese dove io poi nacqui, nel 1954) aveva sparso fuori dal finestrino dell'automobile tutte quelle cambiali inesigibili, giurando a se stesso che mai più avrebbe venduto della merce a rate.

Secondo mia madre Gennaro mi rimandò in matematica perché si era alquanto indispettito per quel diniego inconsapevole che lei gli aveva opposto.

Io, con l'esperienza di oggi, sono più propenso ad accollarmi la responsabilità di quel fallimento scolastico. Anche se, ad esser sincero, ricordo ancora qualche lezione di quel professore, in particolare sui monomi e sui binomi che, in qualche occasione, egli accompagnava con le sue filippiche contro la Televisione di Stato (l'unica all'epoca esistente), rea, a suo dire, della più becera censura, in quanto a lui sembrava assurdo, che si obbligassero le gemelle Kessler (due fate tedesche che il sabato sera allietavano le serate dei maschi italiani con dei balli perfetti su delle gambe altrettanto snelle e perfette) ad indossare delle calzamaglie scure. A sentir sempre lui le cose sconce erano altre e quella censura era frutto dell'ipocrisia dei bigotti clericali. Beh, almeno sulle gambe delle gemelle Kessler potevamo dirci d'accordo anche col prof. Gennaro di Villacidro.

In quell'anno scolastico 1967-1968 tante cose accadevano anche fuori dalla scuola, anche se i canali di informazione di allora erano alquanto limitati.

Non tutti, in effetti, fummo informati del barbaro omicidio di Che Guevara (che poi sarebbe divenuto un idolo per tanti giovani sessantottini e per i loro epigoni degli anni settanta), avvenuto ad ottobre sui monti boliviani.

Ma tutti, perfino noi, nel nostro remoto paese della Sardegna venimmo a conoscenza della nuova, grande frontiera che la scienza medica e la chirurgia andavano percorrendo: un certo professor Christian Barnard, in un Paese a me conosciuto soltanto per il lancio delle navicelle spaziali (di lì a due anni, in effetti, l'uomo avrebbe messo il piede per la prima volta in un astro celeste, fosse anche solo il piccolo satellite terrestre chiamato Luna), aveva trapiantato un cuore nuovo ad un cardiopatico, regalandogli una nuova vita.

Quanti sogni e quanta ammirazione provai per quel professore appena conosciuto! Nella mia ingenua adolescenza il mondo prese così a dividersi in due parti nettamente distinte: una bianca e l'altra nera. Nella parte bianca includevo Christian Barnard, le gemelle Kessller, gli astronauti e gli scienziati che sondavano il cosmo alla ricerca di forme di vita nuove con cui migliorare il mondo, i gruppi rock e quelli psichedelici, con le bionde slavate e discinte, affamate di esperienze e di sesso (magari da consumare con noi giovani e scalpitanti studenti sardi), Martin Luther King e John Kennedy, Gandhi e i disegnatori di fumetti. Nella parte nera c'erano i retrogradi e i matusa (che impedivano alle donne di mostrarsi disponibili), i preti e il clero (che vietavano il sesso ai giovani, incutendogli la paura dell'inferno e condizionando le donne psicologicamente), i ricchi egoisti, i fascisti e i democristiani.

Il papa Paolo VI (che mio padre, anticlericale e nostalgico del Papa Buono, Giovanni XXIII, morto prematuramente, aveva soprannominato Volpe Sesta) emanò un'Enciclica, intitolata, mi pare di ricordare, Humanae Vitae, in cui condannava ogni forma di contraccezione e forse, nella mia visione immatura e distorta, perfino i rapporti sessuali prematrimoniali. Indi per cui anche lui fu messo nella parte nera (povero Paolo VI, un uomo dal cuore d'oro, che aveva regalato la sua cospicua eredità agli operai disoccupati della sua Milano, quando lì era ancora Arcivescovo, mai riconosciuto nella sua grandezza, se non in questi ultimi anni, almeno dalla sua stessa Chiesa).

Scolasticamente parlando quell’anno fu davvero poco fruttuoso per me. E non posso attribuire la colpa a quei professori, tutti, o quasi tutti, assai seri e valenti.

Come fu e come non fu, fatto sta che io mi dovetti passare l’estate a studiare la matematica e la fisica. E sì che con Paolo e Giorgio avevamo realizzato una bilancia in legno, (nell’ambito dello studio pratico della Fisica) che era un capolavoro di perfezione artigianale.

Sulla scuola voglio confessare ancora due cose di cui non vado per niente orgoglioso, frutto anch’esse di quel mio stato d’animo irrequieto e insoddisfatto che mi porterà anche in seguito a cercare, in giro per il mondo, ciò che poi scoprii avere già dentro di me, come credo che sia per ogni adolescente che si rispetti.

La prima è che decidemmo, con Giorgio e Paolo, di saltare le lezioni di latino, per poter godere di qualche ora di libertà da spendere in vagabondaggio e poltronismo. La seconda, di cui mi vergogno ancora di più, è che in un momento di buio dell’anima, fui spinto a dare fuoco a un piccolo, prezioso libro sacro. Si trattava di un piccolo Vangelo, un ricordo della mia permanenza in Seminario. Gli diedi fuoco in un sottoscala che era divenuto il mio rifugio segreto. Lì i miei fratelli maggiori, ed io stesso, nascondevamo i giornaletti, i libri gialli (si trattava di libri gialli della Mondadori, con annessa la serie viola, quella erotica, su cui alimentai le prime fantasie amorose) e le riviste proibite, per sfuggire alla severa censura di mio padre che era impietoso ed estremo nelle sanzioni: ai giornaletti, che distraevano i suoi coadiuvanti di bottega dal lavoro e dal retto vivere, veniva dato fuoco. Ma i miei fratelli, per ogni giornaletto bruciato sembrava ne procurassero altri due. I giornaletti proibiti erano Kriminal, Satanik, Diabolik, Vartan, Wallala, Lando e altre amenità dell’epoca che stuzzicavano le mie fantasie ormonali con appropriati e sconci disegni, corredati di particolari anatomici veritieri e arrapanti. Certo le mie aspirazioni, in quel campo proibito, erano di potere sfogliare “Le Ore”, il summit delle riviste pornografiche di allora, ma quei giornalacci li conobbi, per fortuna, solo più tardi, durante la naja. Per quanto riguarda lo studio del latino, ebbi modo (ma in un certo senso ne fui costretto, pur se lo feci assai volentieri) di rifarmi più avanti, quando giovane studente universitario, mi appassionai così tanto allo studio del diritto (ed in particolare allo studio delle istituzioni di diritto romano) che volli assaporare il piacere di leggere ed apprezzare la saggezza e la profondità del pensiero giuridico dei grandi giureconsulti romani nella loro lingua originale. Così che mi diedi, tra un esame e l’altro, allo studio indefesso della lingua latina; e anche se, per ragioni di tempo, non andai oltre la lettura e la comprensione di testi del livello del “De bello gallico”, riuscii comunque nell’intento di comprendere e tradurre gli aforismi e i brocardi che incontravo nella piacevole lettura dei testi universitari. Per quanto riguarda invece il Vangelo, ho cercato e cerco di riscattare quello stupido e inverecondo gesto, componendo la Bibbia in versi dalla A alla Zeta; e debbo dire di essere a un buon punto, dopo venti anni di lavoro e spero nel giro di un altro lustro di terminare il monumentale lavoro. Ma di questo, e di altro, avrò modo di parlare al paziente lettore in seguito, se avrà la pazienza di seguirmi sino in fondo.

In quello scorcio del 1968 che segnò la seconda parte di quel mio disgraziato anno scolastico molte altre cose erano successe.

A marzo, con mio padre, che era un grande appassionato di boxe, avevamo passato una notte svegli a guardare Nino Benvenuti conquistare il titolo di campione del mondo contro Emil Griffith. Mio padre, cresciuto a fantasticare le sventole micidiali di Primo Carnera, trovò inadeguata la tecnica del grande campione istriano, fatta di saltelli e di sapienti colpi mordi e fuggi. Ma io la trovavo affascinante, anche se non avevo il coraggio e la maturità per dirlo. Comunque gioimmo tutti per la grande vittoria del campione italiano.

Poi arrivò giugno e, come già detto, io fui rimandato in matematica e fisica.

A settembre feci un esamone di riparazione assai brillante e sicuro e fui promosso per la scuola superiore.

Ma questo fa già parte di un’altra storia.

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